bandavej [bàn-da-vei] -s.f. dial.sett. versante esposto a nord
"L'umidità della notte aveva formato una piccola macchia di ruggine su una canna e la grattò via accuratamente con l'unghia. La cagna aveva cominciato ad annusare nei dintorni, la chiamò vicino, e levato dalla tasca un pezzo di pane e uno di formaggio si mise a mangiare lentamente tagliando il pane a fette con il coltello. Restando fermo sentì il sudore raffreddarsi ed allora per fumare una sigaretta si alzò in piedi. Era inutile anche a non pensarci, a non guardare: era sempre così. Quelle mattine sul finire dell'autunno sempre uguali e sempre nuove: le vette lontane con la neve e il sole, il bosco freddo e in ombra la valle in basso con i pascoli coperti di brina lucente, i larici gialli e contorti, sulle rupi, lo scagnare dei segugi lontani e il canto frettoloso e breve degli uccelli di passo".
E’ un breve passo del Bosco degli urogalli di Mario Rigoni Stern che bene descrive il contesto caratteristico di chi ha fatto del contatto con la natura la propria regola di vita, ma la "vita nei boschi" non è una "disobbedienza civile" alla Thoreau e la tecnologia, la nuova tecnologia non può né deve essere dimenticata perché se all’origine della specie (umana) fummo nomadi e cacciatori, se successivamente siamo diventati agricoltori e artigiani e se più recentemente abbiamo assunto il ruolo di tecnici e imprenditori, questo processo irreversibile che chiamiamo progresso non può dimenticare ciò che siamo stati. E la dimensione culturale dei primi passi dell’umanità oggi si trasforma nel piacere dell’avventura, del contatto con la natura, con il recupero di valori autentici, anche se supportati dalle tecnologie più avanzate e dai mezzi di comunicazione più evoluti.
A dimostrare questo assunto si potrebbe prendere oggi l’esempio di un’impresa italiana, collocata a Biella ai piedi delle Alpi, che ha preso il nome – il brand si dovrebbe dire con un fare più glamour – di "bandavej". Un nome strano che nel dialetto locale – per la gioia degli appassionati di etimologie – significa "versante esposto a nord". E così la sintesi vocale di questo "nome", quasi volessimo ridurre la nostra lingua alla struttura di quegli idiomi mediterranei che hanno definitivamente eliminato le vocali, diventa bvd: il volto di una civetta, un uccello di buon augurio come lo sono gli urogalli.
E ora bisognerebbe parlare di tecnologia, ma si preferiscono le preterizioni perché avvolgono l’oggetto del discorrere e lo affrontano circuendolo, forse anche con un pizzico d’ironia. Non è necessario ricordare che il tessuto a maglia non si sviluppa su trame intrecciate da un ordito condotto da spole o da getti violenti d’aria, bensì per il gioco incrociato di aghi che inanellano cappi, nello stesso modo con cui si annodano le reti , siano esse da pesca o di recinzione metallica. Pochi sanno che la prima macchina circolare per "fare a maglia" fu inventata nel lontano 1589 da William Lee, un pastore di Woodbarough , un villaggio inglese del Wiltshire. Più di mezzo secolo più tardi il cittadino di Nimes, Jean Hindret, con un’azione degna del migliore spionaggio industriale trasferì l’invenzione in Francia e per premio ottenne un "privilegio" dal re Luigi IV.
Le macchine per fare tessuti a maglia si sono evolute e oggi riescono a produrre i "tessuti" più elaborati come quello del bandavej dove alla maglia esterna di lana è accoppiata una maglia interna di polipropilene, tenuta stretta da un fitto legame prodotto da una terza fibra, molto più sottile, in elastomero.
Ogni storia ha un suo inizio e questa storia si può iniziare nel 2008 quando Filippo Vaglio Tessitore, nomen omen, vuole sviluppare nel biellese la produzione di un capo intimo sportivo che protegga dal freddo e al tempo stesso faciliti la traspirazione, rimuovendo il sudore. Sembra un problema facile ma non è così. L’esperienza laniera del Biellese è più che bicentenaria, ma la lana, che protegge dal freddo meglio di ogni altra fibra, con un potere coibente di gran lunga superiore ad altri materiali ha il difetto di impregnarsi di umidità sicché se a contatto con un liquido riesce ad assorbirne una quantità pari al 31% della propria massa a secco. Al contrario una fibra sintetica come il polipropilene ha il vantaggio di essere idrorepellente, leggera e soprattutto ipoallergenica. Così l’avventura iniziata sperimentando vari tessuti a maglia di lana a un certo punto ha trovato la strada del doppio strato di cui il brevetto depositato così descrive le caratteristiche:
"Tessuto a doppio strato, lavorato a maglia, in particolare per confezionare capi e articoli di abbigliamento intimo e sportivo e in generale a chi sta a lungo tempo all’aria aperta, costituito da un primo strato interno, previsto per il contatto con la pelle, avente proprietà idrofobiche o idrorepellenti; un secondo strato esterno, avente proprietà idrofiliche o idroassorbenti; e una legatura, interposta fra i due strati interno ed esterno per legarli; in cui lo strato interno, idrofobico, è realizzato con un filato sintetico, in particolare di polipropilene, e lo strato esterno, idrofilico, è realizzato con un filato di lana oppure lana/seta, preferibilmente di titolo fine. Il tessuto a doppio strato del modello di utilità presenta migliorate caratteristiche di isolamento termico e traspirabilità rispetto ai tessuti a doppio strato noti ed in uso nel settore dell’abbigliamento intimo e sportivo, ed inoltre è in grado di offrire all’utilizzatore che lo indossa quell’insuperabile sensazione di benessere che solo la lana o lana/seta, in quanto fibra naturale, è capace di dare."
A questo punto sarebbe necessario da un lato investigare la struttura meccanica della macchina che produce il doppio, o meglio il triplo intreccio di fili eseguiti da batterie di aghi tra di loro ortogonali, ma ciò diventerebbe complesso e poi interesserebbe pochi specialisti. D’altro lato si potrebbe andare a inseguire il popolo degli utilizzatori, ma di ciò è molto più efficiente il ruolo ricoperto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che bandavej già utilizza.
Ma c’è un terzo aspetto che non bisogna dimenticare e che si lega alla terra dove nasce il bandavej. Biella e le sue valli conoscono la lana da tantissimo tempo, sin da quando veniva lavorata artigianalmente nelle case dei contadini. Poi è arrivato il macchinismo e la rivoluzione industriale, ma il “saper fare” è rimasto in queste valli dove una lana grezza prodotta dalle pecore migliori nei luoghi migliori del mondo, viene trattata, filata, tessuta e confezionata interamente sul posto perché anche nella globalizzazione devono mantenersi le caratteristiche locali di un "prodotto a denominazione d’origine controllata": Made in Biella, Made in Italy. E ci sarebbe molto altro da dire, ma per finire, ricordando che sono proprio le proprietà traspiranti e idrorepellenti del tessuto, a fare diventare questi capi ideali per rimuovere il sudore dalla pelle di escursionisti e sportivi, perché non compiere un’ultima immersione letteraria?
Così scriveva Alberto Arbasino nel suo Anonimo Lombardo: "Quanto caldo abbiamo sofferto alla frontiera, una visita interminabile, una fila di macchine d'ogni nazione lunga lunga su per i tourniquets piene di gente sudata e rabbiosa che si toglieva camicie e magliette e restava a torso nudo, certi vecchiacci adiposi! noi eravamo lí per metterci in costume da bagno e correr giú ai Balzi Rossi".
Se avessero indossato una maglia bandavej...
Vittorio Marchis
Docente di storia della tecnologia, storia dell’industria italiana e storia della cultura materiale al Politecnico di Torino, di cui dirige anche il Centro Museo e Documentazione Storica.